Veneti in Maremma
di Paolo Nardini
I contadini d'origine veneta emigrati in Maremma negli anni trenta hanno mantenuto a lungo alcuni dei propri tratti culturali. I vecchi, in famiglia ancora oggi parlano il proprio dialetto, ma sono le pratiche endogamiche ad aver mantenuto al gruppo, per lungo tempo, la propria identità
Gli etnologi che si sono occupati delle società semplici (i cosiddetti "popoli primitivi") hanno rilevato l'esistenza di regole matrimoniali, ovvero di una serie di norme che prescrivono il matrimonio con certe categorie di parenti, distinguendo in maniera esplicita gli individui proibiti dai coniugi possibili.
Ad esse si oppongono le "società complesse" come quella, per intenderci, del mondo occidentale e "civilizzato", come la nostra, in cui le norme che regolano la scelta del partner matrimoniale, si limitano a proibire determinati individui, senza peraltro indicare a quale categoria o gruppo debba appartenere, d'obbligo o di preferenza, il coniuge.
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Mostra fotografica “I Veneti di Maremma. Storia di una migrazione. Immagini di vita e di lavoro dei contadini veneti di Alberese 1930 – 1954”, Archivio delle tradizioni popolari della Maremma, Grosseto, 2001 (prima edizione), pannello n. 28 – Genealogia.
Bruno va avanti e indietro per i corridoi a piano terra dell'edificio che un tempo fu il granaio lorenese di Spergolaia, cercando, quasi con affanno, la corrispondenza fra ciò che ha in mente e le frasi che si leggono sui pannelli. L'aveva letta, quella frase che secondo lui sintetizzava, con poche parole, le condizioni vissute dai suoi stessi familiari. Lo seguo, borsa a tracolla e microfono del registratore in mano, senza poterlo aiutare, non riuscendo a capire quale sia il pannello che vuol mostrarmi. Poi finalmente: "È questa che ti volevo dire, è questa che ti volevo dire!" Legge l'inizio: "Vedi? È perfetto! “Fra i veneti di Alberese ha agito, in particolare nei primi decenni, una sorta di «endogamia» che alla lettera significa «regola dello sposarsi dentro»...” Infatti, fra parentesi ti dico... ma questo non lo registrare. Mio nonno..."
Premo stop nel registratore e lui seguita a parlare. Si tratta della vicenda dello zio Carlo, del suo matrimonio. Appena capisco di cosa si tratta lo interrompo: "ma questo non possiamo non registrarlo! Lo posso registrare?" mentre continua a parlare acconsente con un cenno del capo. È troppo importante ciò che sta dicendo, perché s’interrompa.
Bruno teneva aperta la mostra sui veneti di Maremma allestita al piano terra, nei locali restaurati del Granaio Lorenese di Spergolaia, nell'estate 2003. Al piano di sopra, invece, nell'ampio salone c'era "L'invenzione della Maremma", con la grande insegna disegnata da Ferenc Pinter, i disegni di Massimiliano Longo e quelli del Toppi, le foto di Adolfo Denci, di Scheuermeier, dei Fratelli Gori, con il modellino della pompa a vento “Vivarelli”, la riproduzione in scala degli idrovolanti delle trasvolate, che facevano base alla laguna di Orbetello, di Italo Balbo.
Anchise, Antonietta, Bibi, Bruno, Giovanni, Loretta, Umberto si davano il cambio per tenere aperto tutti i pomeriggi. Veneti e toscani di Alberese che avevano cominciato, forse a seguito dei dibattiti, della mostra, degli incontri su questo tema, a ragionare sulla propria storia. Una storia cominciata con le prime migrazioni, volute dal granduca Ferdinando IV, alla fine dell'Ottocento, di gente che proveniva dalla Val di Chiana senese, aretina e umbra, oltre ad alcune famiglie che venivano dal Lazio. Dopo la prima grande guerra la tenuta fu espropriata ai granduchi, che, essendo di nazionalità austriaca, erano diventati nemici dello stato italiano, ed affidata all'Opera Nazionale per i Combattenti e Reduci. Prima ancora della promulgazione della legge sulla bonifica integrale, l'Onc avviò la costruzione di un centinaio di poderi nell'ampia tenuta di seimilacinquecento ettari. Questi poderi - venti ettari di media l'uno, una casa, la stalla, lo stabbio per i maiali, carrareccia, pozzo e concimaia - era stabilito che sarebbero stati occupati da famiglie di contadini veneti, con un contratto di mezzadria. Le famiglie dovevano essere di reduci della prima guerra mondiale, e totalizzare almeno quattro punti secondo un sistema di calcolo che attribuiva un punto ad ogni maschi adulto, sei decimi alle donne, quattro decimi ai ragazzi che avessero superato i quattordici anni. Nelle affollate famiglie contadine venete non era un problema raggiungere questo punteggio. In tutto giunsero ad Alberese nei primi anni trenta oltre millecinquecento persone, con una media di oltre quattordici individui a famiglia e punte di ventiquattro.
L’arrivo dei coloni veneti è da vedere come la realizzazione di una parte del programma che il governo mise in atto all’inizio degli anni trenta del Novecento per favorire lo spostamento di popolazioni dalle zone più povere e meno produttive, verso quelle bonificate, anche se, nell’economia generale del programma fascista di riassetto demografico, la Maremma occupava un posto di secondo piano. Il fascismo cercava di trasformare, agli occhi di una parte dell’opinione pubblica, uno stato di crisi sociale, se non addirittura di contestazione politica, in un segno di forza e di successo del proprio programma. Tuttavia, i trasferimenti definitivi avvenuti durante il ventennio fascista erano al massimo un centinaio di migliaia contro i molti milioni di persone che mutavano residenza di propria iniziativa. La colonizzazione della Maremma non costituiva che una parte dell’assurdo programma del governo fascista, di invertire il flusso migratorio interno, che ormai da molti decenni aveva la direzione dal sud al nord e dalle regioni orientali al quadrante nord occidentale. Il governo cercava di spostare masse di popolazione dalle zone a più alta densità demografica verso i luoghi meno popolosi, in terreni recentemente conquistati agli acquitrini o ancora da bonificare. Tra i primi progetti di bonifica avviati dal regime nel periodo fra le due guerre, vi era quello condotto in Sardegna, nei pressi di Oristano, con la costruzione, a partire dal 1921, di un centinaio di poderi da assegnare a famiglie sarde, toscane e venete, e con la costruzione, nel 1928, della città di Mussolinia (oggi Arborea). E poi la più nota ed anche la più importante opera di bonifica dell’Agro Pontino, dove furono fondate cinque nuove città: nel 1932 Littoria (oggi Latina), nel 1933 Sabaudia, nel 1934 Pontinia, nel 1936 Aprilia e nel 1938 Pomezia, oltre a dodici borghi rurali.
Ora una mostra fotografica allestita ad Alberese riprendeva questa storia: mostrava la fattoria com'era negli anni trenta, le strade polverose, i campi del piano fra le colline di Grancia e i monti dell'Uccellina, senza un albero, un riparo, una siepe. Dalle due collinette di Magazzini e della fattoria le guardie controllavano ogni movimento nei poderi. Ma la storia di Bruno è una storia familiare.
"Allora, tuo nonno, mi dicevi..."
"Davide."
"Davide avrebbe «consigliato» al..."
"Non solo, ma insisteva, anche, perché..."
"Davide avrebbe desiderato che Carlo, figlio di Giuseppe suo figlio, sposasse Ines, che è cugina..."
"…di primo grado! E il problema... Il nonno allora aveva una grossa influenza, perché era un'autorità in casa. Il nonno aveva un'autorità per cui c'era un timore reverenziale, anche da parte dei figli."
Carlo e Ines non volevano sposarsi; lentamente il nonno si dissuase, e il matrimonio non si realizzò. Ma non era frequente che avvenisse così.
La testimonianza di Bruno mette a fuoco anche la relazione fra i membri dei due gruppi che convivevano ad Alberese: i veneti e i toscani. Nell'ambito familiare i contrasti, se esistenti non potevano non emergere, e Bruno li ha colti in maniera nitida durante la sua infanzia. Suo zio, Olivo, nel 1942 sposa Clara, una ragazza di Grosseto.
"Io non capivo questa situazione, dice Bruno, perché ti ho detto... E ricordo la forte conflittualità che c'era fra mia madre, che era cognata della zia Clara, e la zia Giuseppina, che era una persona molto mite, molto buona, in silenzio... però si capiva che questa cognata toscana era... non palesemente, ma si capiva che era un'intrusa, insomma. Per cui c'era un conflitto latente, che non è mai esploso, ma si palpava nell'aria che c'era questa cosa qui. Presempio: bisbigli che io coglievo, di mia madre con mia zia, quando questa zia toscana... "
"A carico della Clara?"
"Bisbigli: «ma questa cittadina...» ecco, parole di questo genere: «non sa fare niente, non le hanno insegnato niente...» eccetera, no? Che io non credo che fosse proprio così, ma era un modo per esprimere dissenso di questa intrusione. Credo senza nemmeno cattiveria, in buona fede, però queste cose le ho colte, me le ricordo."
Il gruppo, evidentemente, rafforza il senso d'identità e la sicurezza personale. Il fatto che le altre donne della famiglia, le cognate, condividessero modalità d'esecuzione delle operazioni domestiche, e che a queste modalità fosse estranea la cognata grossetana, è chiaro. Il fatto che le cognate venete si chiedessero come questa cittadina non sapesse fare niente, non le avessero insegnato niente, benché possibile, altamente improbabile, in una società in cui alle ragazze s'insegnava innanzitutto a svolgere le faccende domestiche, la dice lunga sulle relazioni fra veneti e toscani, sul modo di considerarsi gli uni e gli altri. Le affermazioni delle cognate venete erano evidentemente rivolte più alla cultura che alla persona, rimarcavano la diversità fra culture, più che il fatto che quella cognata cittadina non fosse dotata di una qualche abilità. Ciò che emergeva era una sorta di conflitto sul piano etnico, più che su quello personale. Le affermazioni e le perplessità delle cognate venete, che, come ripeto, facevano gruppo, denotano il rifiuto di una cultura diversa dalla propria. Il paradosso sta nel fatto che a livello macro, di società, erano loro, i veneti, gli ospiti, mentre a livello micro, familiare, le sorti si rovesciano e da ospiti i veneti (ovverosia il gruppo delle cognate) diventano ospitanti, e la cognatina toscana, più giovane di loro, una bimba, a confronto, senza muoversi dalla sua terra, viene a trovarsi in un territorio straniero, sembra lei l'emigrata.