Domenico Tiburzi

di Paolo Nardini  

imgIo sono Tiburzi, brigante maremmano.
La Maremma non avrà altro brigante al di fuori di me.
Non nominare il nome di Tiburzi invano. 
Onora i signori del luogo. 
Aiuta i disgraziati. 
Non ammazzare. 
Non rubare.
Non vedere.
Non parlare.
Non fare la spia, né ai Carabinieri di Capalbio, né al Delegato di Orbetello.
 
Questi, secondo Piero Bargellini, i "dieci comandamenti" del Brigante Tiburzi, ai quali solo lui poteva trasgredire. Domenico Tiburzi è stato l'unico fra i personaggi che hanno dato vita al fenomeno che in Italia ha preso il nome di 'brigantaggio', ad aver oltrepassato gli anni della propria vita nella memoria della gente. 
Nato a Cèllere nel 1836, la sua vita è stata una serie ininterrotta di problemi con la giustizia, dai furti campestri, alle estorsioni, agli omicidi. 
Più volte condannato ed evaso, Tiburzi resta latitante per quasi un quarto di secolo, spargendo il terrore non solo fra i proprietari terrieri delle zone di Capalbio, Manciano, Orbetello. Finché nella notte fra il 23 e il 24 ottobre 1896, sul poggio 'Le Forane' di Capalbio, cadde sotto il fuoco dei carabinieri. 
La gente manifesta subito un rimpianto corale per la sua morte, dimostrando di considerarlo il simbolo della ribellione verso una società fondata sull'ingiustizia e la sopraffazione, di riconoscergli un certo grado di altruismo e generosità, nei confronti dei poveri, dei diseredati. 
Al funerale, il prete di Capalbio intende negare a quell'uomo la cui esistenza si è consumata fra galera e macchia, la sepoltura in terra consacrata. Ma la gente pretende una sepoltura come quella di tutti gli altri. Fino a raggiungere un compromesso: mezzo dentro e mezzo fuori, di traverso al muro di recinzione del camposanto.