San Giovanni

La notte di S. Giovanni: usanze in Maremma
Dalle "guazze" di Santa Fiora all'"erba della paura" di Massa


Scendendo lungo il ciclo dell'anno, le feste e le scadenze del calendario contadino si sono lentamente diradate e l'angoscia invernale, il fervore primaverile, si sono distesi nella certezza dell'estate. L'ultimo invito simbolico alla natura prima del suo definitivo risveglio è stato il Maggio, con i suoi fiori, con i suoi rami e l'albero recato ritualmente a significare altri alberi: boschi di germogli e frutti per saziare una comunità agricola legata ai cicli della terra.

Ora che si avvicina la pienezza dei raccolti sono i ritmi lavorativi a scandire la simbologia del mondo contadino, c'è ancora una scadenza simbolica: quel 24 giugno che tutta la Maremma grossetana identifica con la "Notte di San Giovanni". Anche San Giovanni è un martire cristiano e anche il sangue che sgorgò dalla sua testa troncata era il sangue di altre religioni e altri dei che per secoli e secoli (Linos, Maneros, Bormos, Osiride) gli antichi mietitori dell'area mediterranea piansero, chiamando la messe con il nome della vittima sacra, in una identificazione uomo-dio-vegetale. Il sangue della vittima diviene linfa magica con cui fertilizzare il suolo e proteggere dalle incertezze dell'aridità. Così in quella notte nella quale si consuma simbolicamente il passaggio alla stagione dei frutti ed il Santo diviene il garante stesso della possibilità di sopravvivenza, si consumavano riti comuni assai importanti.

In tutta la Maremma i fiori e le erbe raccolti in quelle ore avevano particolari virtù e sarebbero serviti tutto l'anno, come preziosi medicamenti e posizioni. Durante la notte si lasciavano alcuni fascetti di erbe fuori del davanzale a macerare nell'acqua e con essa la mattina ci si lavava la faccia; oppure si coglievano le "borse di San Giovanni": escrescenze dai rami degli olmi piene di piccoli insetti. Con l'"olio" tratto da questi recipienti naturali si curavano dolori, tagli e ferite.
Appena scendeva la sera, poi, come per salutare una scadenza annuale tanto importante, venivano accesi grandi falò che illuminavano tutta la campagna. La magia di questa data non interessava solo a livello terapeutico, ma anche a livello sociale, legandosi, appunto come festa della natura e della vita, ai rituali prematrimoniali e di corteggiamento.

A Santa Fiora in particolare, durante questa notte, si svolgeva l'usanza delle "Guazze" (Guazze Buone e Guazze Cattive). Le Guazze erano le primizie: fiori, ortaggi, fronte e frutta che i giovanotti raccoglievano durante il giorno, violando spesso gli orti e i frutteti e sfidando la loro custodia. Le primizie venivano disposte con cura durante l'oscurità di fronte alle abitazioni delle giovani donne, affisse sulla porta o sui gradini. Queste erano le Guazze Buone; promesse d'amore e anonimi messaggi che preludevano ad altri approcci e rapporti.
Quando invece si voleva vendicarsi di un "no", esprimere la propria rabbia ed il proprio dissenso, davanti agli usci erano attaccati mazzi di rovi, agli, cipolle, marruche.
Ma le Guazze Cattive potevano anche divenire una invettiva violenta e rispecchiare antiche inimicizie familiari; si concretizzavano allora in travi, sassi, teste di animali sanguinanti di fronte all'entrata.
Le ragazze attendevano con grande impazienza questo appello che cercavano di personalizzare e che suonava comunque come un giudizio anonimo e collettivo su di loro, seppur mediato dai giovani e dagli spasimanti. Spesso le notti di Santa Fiora passavano insonni e le madri, il mattino seguente, correvano ad aprire le porte e a dare l'annunzio alle figlie. Quella che aveva avuto una Guazza Buona gioiva di essa, si metteva l'abito buono ed usciva, fiera dell'espressione di affetto e di cortesia..
Rivivevano in questa usanza la connessione pagana fertilità della donna-fertilità della primizia, la cortesia medievale, una visione femminile della natura tutta rinascimentale

A Massa Marittima c'era un altro uso e la mattina presto, all'alba, si andava a cogliere un'erba, detta "della paura". Sulle sue foglie, infatti, coperte dalla rugiada, si sarebbe intravista l'immagine dello stesso Santo decollato. Era magica e curativa, come tutte le erbe di quel giorno, ma ben altra avventura riservava a quelli che conoscevano una formula antica e segreta: recitarla in quella occasione equivaleva ad evocare una processione di martiri senza testa guidati da San Giovanni.
Durante la notte le ragazze facevano anche presagi sul loro futuro sposo, cosa del resto diffusa, come Frazer testimonia, in altre feste e ricorrenze dal carattere particolarmente pregnante per la comunità contadina. Nel nord della Maremma tre fave rappresentavano tre possibili mariti: quello sbucciato un marito povero, quello sbucciato a metà un marito di media condizione, quello intatto un marito ricco. Trarre in sorte una di queste fave significava interrogare il futuro e si sa quanto spesso, nel mondo primitivo, capacità paragnomiche particolari o comunque culturalmente date, riuscissero effettivamente ad influenzare le scelte future.

Altri e diffusi erano, in tutta Europa, le tecniche: sfogliare un mazzolino di fiori, tirare una scarpa ed interpretarne la posizione, leggere i tizzi dei fuochi accesi. A Porto Santo Stefano un detto, ancora testimoniato, sintetizzava la magia di quel momento: "Per San Giovanni buttati in mare con tutti i panni" (usanza del resto largamente diffusa anche in Russia ed in Serbia, dove ci si getta vestiti nell'acqua dei fiumi). In questa data infatti, ancora a metà tra la primavera ed il fuoco di luglio e agosto ed intorno al solstizio d'estate, la (…) non perdeva l'occasione per purgarsi dai rischi esistenziali, con una serie di riti che utilizzavano la natura nel suo pieno vigore ed invocavano la fertilità dei semi e del sesso.
In un paese di pescatori come Santo Stefano con una cultura sostanzialmente chiusa e taciturna, i significati della data erano sintetizzati in un magico tuffo; in esso si volevano cavare le vesti sociali e la vita stessa e dare il via alla speranza come in un rituale e pagano mare Giordano di casa nostra.
Roberto Ferretti 1978