Ottava rima
Paolo Nardini
Oralità e scrittura nei poeti di ieri e di oggi
Si può dire che dal punto di vista letterario la cultura che si usa chiamare occidentale inizia con due grandi poemi: l’Iliade e l’Odissea. Essi sono giunti a noi grazie ad una versione scritta che gli studiosi fanno risalire al sesto secolo prima della nostra era. Ma i caratteri linguistici che mostrano, soprattutto l’Iliade, come i tratti di civiltà che presentano, inducono a pensare che la loro produzione risalga almeno ad un paio di secoli più indietro. Dunque intorno all’ottavo secolo avanti Cristo. Solo per quel periodo, infatti, sono attestate in Grecia iscrizioni alfabetiche derivanti dal fenicio, mentre nei quattro secoli precedenti, indicati come “le età oscure”, il mondo ellenico non conosceva alcuna forma di scrittura. Solo la civiltà micenea (1500-1100 a.C.) ne aveva conosciuta una, ma non si trattava di una forma letteraria: solo di un sistema di scrittura adatto solo ad una utilizzazione amministrativa per registrazioni d’archivio. Peraltro prima del IV secolo precedente l’era contemporanea, nel mondo ellenico la fruizione delle opere letterarie era con grande prevalenza di carattere orale e uditivo, piuttosto che scritto e visivo.
In realtà la “Parry-Lord theory”, secondo la quale i poemi omerici hanno origine in un ambiente di oralità, pare un approccio insufficiente, perché si concentra esclusivamente su un particolare aspetto del discorso: la formula. Una analisi comparativa fra i poemi omerici e alcuni formalizzati orali delle popolazioni dell’Africa contemporanea ha permesso, recentemente, di accreditare la formulazione di una ipotesi tendente a dimostrare che l’epica greca arcaica presenta caratteri che non sono tanto tipici delle culture orali, quanto quelli di una fase primitiva delle culture “alletterate”.
C’è una tradizione ancora viva e vitale, nell’Italia centrale, che vanta una ascendenza illustre e profonda: quella dei cantastorie, dei poeti estemporanei, dei cantori in ottava rima. Questi si sono formati alla scuola dei poemi cavallereschi dell’Ariosto e del Tasso, dai quali spesso prendono la metrica e particolari espressioni. Alcuni di loro hanno letto Dante, o lo stesso Omero. Tutto questo congiunto ad una lezione diretta e immediata, orale e uditiva; una lezione che non fa uso della teoria, ma in cui si passa dall’esempio alla pratica. Una modalità di apprendimento che si usa definire “per imitazione”.
In una civiltà come quella greca arcaica, in cui la scrittura si trovava ad uno stadio evolutivo iniziale, i principi fondamentali che informavano il vivere sociale erano affidati all’oralità. In quella fase dello sviluppo culturale l’oralità, facendo uso della scrittura, o quanto meno delle acquisizioni della scrittura, come ad esempio la possibilità di visualizzare il suono in una rappresentazione scritta, veicolava messaggi importanti, come il senso dell’onore, il gusto per le imprese eroiche, l’apprezzamento della bellezza, l’esaltazione degli dei.
L’opera dei poeti a braccio, dei cantastorie, da antica tradizione vive nell’oralità. Ma non è estranea al mondo della scrittura, all’interno del quale vive e prende forma. È solo di recente che gli studiosi hanno cominciato a documentare l’opera dei cantastorie e dei poeti d’ottava rima. Nell’ottocento ha vissuto nel pistoiese, a Pian degli Ontani, Beatrice Bugelli (1803-1885), una poetessa improvvisatrice affascinante e dotata di straordinaria bravura, secondo la testimonianza di più d’uno studioso del tempo, nonostante fosse la moglie di un pastore, e, soprattutto, analfabeta. Di lei scrisse Noccolò Tommaseo nella sua raccolta di Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci pubblicata a Venezia nel 1941: “feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice moglie di un pastore, che bada anch’essa alle pecore, che non sa leggere, ma che improvvisa ottave con facilità senza sgarar verso quasi mai”. Anche altri studiosi, il Tigri, il D’Ancona, il Giuliano, il Fucini, citano nelle loro opere Beatrice Bugelli. Un altro poeta improvvisatore, anch’egli illetterato, vissuto nell’ottocento è Giuseppe Moroni, detto “il Niccheri”. Egli ha lasciato una traccia nel patrimonio tradizionale con la sua opera dedicata alla Pia de’ Tolomei, imparata e tramandata oralmente.
È nel novecento che la poesia popolare in ottava rima conquista pienamente la forma scritta. I cantastorie si fermavano nelle piazze delle città e dei paesi, cantavano storie tragiche o allegre, accompagnandosi con l’organetto, e vendevano i “fogli volanti”, sui quali erano stampate le loro storie.
Lo sviluppo tecnologico, e soprattutto la diffusione dell’uso del magnetofono, poi quello della videocamera, hanno favorito la raccolta di documentazione e la circolazione di informazioni su questo fenomeno. Registratore e videocamera servono a registrare un canto per poterlo studiare, o trascrivere. Ma c’è un solo modo per farsi investire dall’onda emotiva che promana dai poeti durante la loro performance: ascoltarli dal vivo.
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